Nelle scatole sbagliate

Fin da piccoli la società ci inserisce in delle scatole che identificano ognuno di noi. A seconda della scatola in cui ti trovi, del modo in cui ti adegui alle richieste della scatola, puoi o meno avere dei riscontri. C’è un peso entro il quale sei giudicata esteticamente attraente, appetibile per il mondo dello spettacolo e per lo stesso giornalismo televisivo. È assurdo come l’apparenza e la perfezione apparente vincolino mondi in cui la creatività dovrebbe farla da padrona. Non si può uscire dalla scatola sperimentando, si fanno sempre le stesse cose perché funzionano. Poi arriva una pandemia a imporre la tecnologia, le riunioni online, lo smart working, gli ospiti da remoto. Vi è poi una scatola in cui le mogli e madri non vengono considerate “rock”; ad alcuni pare proprio non possano più sognare in grande e non si sa perché. Vi è una scatola che continua a promuovere lo scontro tra uomo e donna per veicolare la parità (che è già una contraddizione di per sé). Vi è una scatola che ti dice che sui social puoi esprimere solo pensieri sul tramonto postando il sedere a corredo e allora io carico foto sfuocate con, sullo sfondo, prese e interruttori. E mi diverto, lo ammetto, perché nessuno potrà mai impormi in che scatola stare.

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